Il 1980: il Project
gioca d'azzardo

a cura di Dario Pompili

 

The Turn Of A Friendly Card, ovvero, in termini più elastici di quanto la traduzione letterale lo consenta, "Pescare la carta favorevole". Quanto mai indicativo il titolo per un album, come sempre tematico, in cui il duo Woolfson-Parsons tratta questa volta del tema del gioco d'azzardo, concetto estensibile tuttavia, come affermato dallo stesso Eric, al rischio in generale sempre in agguato nelle vicende umane: "Non siamo mai montati in cattedra per fare i professori; ci siamo limitati ad osservare certe cose che ci erano successe. Una volta avevo giocato d'azzardo ma poi mi sono reso conto che non era la prima, che avevo già rischiato altre volte...".

Una eloquente copertina poteva essere l'inquadratura di un interno affollato di un casinò, ma ancora una volta il Project ha voluto rendere più sottile il concept, presentando su sfondo nero una vetrata di un mosaico raffigurante una carta da gioco, il re di quadri. La bellissima copertina non è tra l'altro opera di uno studio grafico affermato (quale il fidato Hypgnosis, curatore delle realizzazioni precedenti), ma del duo Godley-Creme, due musicisti dal talento grafico appartenenti ai 10CC, storico gruppo cui si intreccia anche la storia del Project, visto che il lead vocal Eric Stewart ha più volte collaborato con Parsons in splendide prestazioni vocali.

La scelta del mosaico, dalla cui vetrata si irradia il sole, lascia intendere quanto il profano tenda a sostituire il sacro; da una vetrata simile ci si aspetterebbe una raffigurazione sacra, tipica del gusto gotico delle cattedrali medievali, mentre in questa circostanza ci viene suggerito che il gioco delle carte, raffigurato nel suo simbolismo da una rappresentazione tangibile, quasi umana, il re di quadri, è elevato ad idolo: il gioco d'azzardo sostituisce la fede religiosa, e racchiude l'uomo in una sorta di cattedrale della perdizione.

Il gusto medievale pervade l'intero album, e si respira un'aria di totale dedizione al dio del gioco, al punto che Alan ed Eric concepiscono e producono questo capolavoro a tra Montecarlo e Monaco, la cui frequentazione ha ispirato e favorito lo sviluppo dell'album. Curiosamente una critica più attenta sembra occuparsi dell'album The Turn Of A Friendly Card, visto che per "l'atto quinto" del Project Alan Parsons ed Eric Woolfson sono addirittura venuti in Italia per presentare il loro nuovo lavoro, a Roma.

Nell'occasione, il curatore dell'intervista affronta le tematiche del Project con la dovuta professionalità; per l'occasione, si legge tra le righe che Parsons aveva preteso per l'ascolto dell'album un impianto hi-fi che potesse essere realmente all'altezza dell'opera, in grado di elevare le sottigliezze del sound e le sfumature più sottili; vent'anni dopo, in pieno sviluppo digitale, concordo con Alan che traduce le sue opere su supporti quali il DVD, evidentemente perché già all'origine, in un periodo analogico per eccellenza, la perfezione stilistica e l'abilità di ingegnere del suono aveva dato già i suoi prodotti, ovvero realizzazioni sonore in grado di essere riprodotte sino alla più sottile sfumatura al meglio anche sul più evoluto supporto nato a vent'anni di distanza.

Album prodotto con le solite premure "chirurgiche", Alan ed Eric confessano concordamente all'intervistatore che "non considerano limitativo il fatto di aver creato un progetto in grado di estrinsecarsi soltanto in studio, senza la possibilità di riprodurre dal vivo il proprio sound"; nonostante tutto quello che si è detto nel tempo sul mancato "calcare il palcoscenico" da parte del Project, senz'altro mi trovo in accordo con tale affermazione, ritenendo altamente difficile e in parte svilente dover riprodurre dal vivo queste atmosfere con la tecnologia di allora. Notato questo, l'intervistatore aggiunge "The Turn Of A Friendly Card è uno degli album più coloriti e fantasiosi dell'Alan Parsons Project, allo stesso livello espressivo dei primi due… e questo va unito all'indispensabile possesso di un buon impianto hi-fi in grado di coglierne tutte le sottigliezze sonore"; tuttavia si prosegue con una affermazione che suona allo stesso tempo complimento e condanna: "[l'ascolto] può far anche dimenticare il troppo disinvolto ecletticismo degli stili e la consueta assenza di uno stile unitario in grado di caratterizzare autonomamente l'essenza di questo fin troppo elastico Progetto"; non è chiaro se qui l'intervistatore si riferisca al fatto che Parsons e soci erano (e sono) in grado stilisticamente di arrivare ovunque, e pertanto non sono etichettabili come monocordi, oppure se voglia affermare che vi sia una mancanza di legame tra i brani, come se questi fossero privi di omogeneità ed ordine.

Di seguito si torna ad accennare a "l'assoluta professionalità" di Parsons, che, in effetti, dà prova di questo nell'occasione di una conferenza, la prima ed unica effettiva che Alan abbia tenuto in Italia; difatti ha preteso l'ascolto su un impianto sofisticato, e solo in seguito ha concesso la conferenza stampa; giustamente, come avviene per la presentazioni cinematografiche, per cui la critica ha il diritto-dovere di sapere, e chi non è interessato può e deve starne fuori. Ne risulta, come si legge da questo articolo, che forse per la prima volta il resoconto è più attento e professionale.

Alan scopre le sue "friendly cards", ed arriva ad affermare doverosamente che "il suo è un progetto volto a trovare quel qualcosa di esteticamente perfetto che dovrebbe passare alla storia come la musica classica di questi anni". Curioso dire che questa intervista l'ho letta anni dopo aver affermato la stessa cosa con le stesse parole per anni, ed ora scopro che Parsons ha raggiunto lo scopo che si era ripromesso. Il Project è realmente un progetto di ricerca stilistica, e The Alan Parsons Project è il nome di un gruppo di ricerca, non diversamente da quanto avviene nel mondo per i gruppi di ricerca finalizzati verso un obbiettivo prefisso, e questo, se vogliamo, ne giustifica l'assenza dal palcoscenico; Alan sembra dire "avete mai visto dei ricercatori di un laboratorio andare in tv?"; sarebbe quasi contraddittorio e ne svilirebbe la serietà professionale; "la nostra è una ricerca indipendente che non può tener presente il punk o la new wave come riferimento", tanto per chiarirne il concetto.

Errate alcune considerazioni dell'intervistatore, come "questo album, forse grazie alla sua perfezione formale, ci sembra più accessibile", il che è una vistosa contraddizione in termini, visto che una perfezione formale dovrebbe valere solo per una elìte di utenti. In realtà tutti i lavori del Project e di Parsons solista hanno la medesima cura formale, ma non sono per questo motivo rocche impenetrabili; chiunque può ascoltare, ma solo chi vuole può capire. Parsons ci dà la traccia ed il prodotto finale, fruibile per ogni utente, ma solo chi lo desidera può ricercarne il filo rosso che lega l'immenso lavoro realizzato e capirne l'essenza.

Pertanto, quando leggo nel trafiletto dedicato al disco che l'album si presenta "lucido, pulito e lineare, forse un tantino freddo… realizzato con precisione esasperata, pignoleria, professionalità", non posso far altro che dire: d'accordo, il Project è proprio questo, ma non è affato un difetto, è invece il suo eterno pregio.

I giudizi sui brani sono abbastanza attenti, e li riporto di seguito: "I Don't Wanna Go Home" è un brano molto movimentato, con un buon ritmo e venature blues nell'ambientazione. Sicuramente la cosa più interessante della prima facciata… La seconda è interamente dedicata alla suite che dà il titolo all'album. I testi affrontano il tema del gioco d'azzardo, con le carte e con i dadi, ma, almeno nelle intenzioni degli autori e soprattutto di Eric che si occupa prevalentemente dei testi, vuole essere una sorta di metafora sull'azzardo e sull'imprevisto possibile in ogni momento della vita di tutti i giorni. I brani che compongono il lato B sono sei: apre "The gold bug", brano interamente strumentale, molto raffinato; poi è la volta della suite, divisa in cinque parti, "The tum of a friendly card" parte uno, "Snake eyes", "The ace of swords", "Nothing left to lose" e "The turn of a friendly card" parte due. Il motivo portante è abbastanza accatttvante, un lento orecchiabile che riporta a certe sfumature del pop inglese. Un po' di ritmo in più in "Snake eyes" che rende l'idea dei gioco dei dadi, mentre "The ace of swords", ancora un brano strumentale, risente della mano sapiente dell'arrangiatore Andrew Powell."

Aldilà di errori come "Woolfman" anziché "Woolfson", il giudizio sembra essere sapientemente miscelato e più attento; resta sempre tuttavia la considerazione del distacco e freddezza del duo, anche graficamente visibile dal disegno del mixer con la sagoma di Alan che appare nella pagina dell'intervista, quasi a simboleggiare la freddezza della figura dell'ingegnere del suono. La mancanza di "feeling" a vantaggio della formalità, così come rimproverata a Parsons trova una bellissima risposta nell'affermazione di Alan "E' una questione di scelte, uno dice 'vediamo cosa succede suonando tutti insieme su una pista' io dico "scopriamo i suoni, identifìchiamo la loro provenienza, la loro struttura, analizziamo le armonie possibili. Poi utilizziamoli". Inutile dire che questo fa capire la motivazione dell'assenza dalla riproduzione dal vivo negli anni '70 e '80. E' ancora più significativo leggere la risposta di Woolfson alla domanda se è possibile ancora oggi scrivere canzoni d'amore, come Time "Penso di si. Tutto sta nel non commettere l'errore di staccare il testo dalla musica. Sono inscindibili e anche il modo di cantare è stato studiato accuratamente."

Nulla è lasciato al caso, per fortuna.