Davvero particolarmente prolifico il biennio 1984 - 1985 per Alan Parsons, visto che mette a segno 2 album completi e due basilari produzioni; gli album sono il già citato Ammonia Avenue ed il secondo, appunto, Vulture Culture; le due produzioni del 1984 sono una per l'album dell'omonimo gruppo Keats (un album interessantissimo che conferisce piena libertà espressiva a Bairnson, Paton, Elliott, Blunstone e Bardens, tastierista dei Camel) e la magistrale colonna sonora del celebre film Ladyhawke, dove Powell disegna con maestria un tappeto musicale di sapore medievale entrato nei cuori di chiunque abbia visto tale pellicola. Di Vulture Culture è stata fin troppo sottolineata l'assenza di Powell, impegnato appunto nella lavorazione di Ladyhawke, al punto da tralasciare l'essenza del concept, abilmente tracciata da Woolfson in uno dei rari interventi televisivi italiani: Vulture Culture è l'inversione dell'espressione Culture Vulture, modo di dire anglosassone corrispondente al nostro "cultura snob"; invertendo le parole per errore", dice Woolfson, "mi accorsi che tali due termini significavano Cultura dell'Avvoltoio, ovvero una comportamento tipico della società moderna" in cui, prosegue, "si manifesta la tendenza di ciascuno a sopraffare il prossimo". Pertanto il concept è imperniato nella lotta per l'affermazione del proprio io anche a costo del danneggiamento altrui. Ben presente nell'artwork dell'album (maggiormente apprezzabile su vinile) dove campeggia una sorta di anello con la testa di avvoltoio; questo oggetto direi quasi votivo, di nuovo di reminescenza egizia (noti gli scettri faraonici con la testa dell'avvoltoio, animale sacro e rappresentativo del potere) raffigurato in forma circolare è una rappresentazione di una cultura prevaricatrice che finisce tuttavia tristemente per distruggersi: un avvoltoio, il cui corpo piumato assume le sembianze delle squame di un rettile che morde se stesso. Il tutto servito su velluto rosso, il simbolo per eccellenza del peccato e del potere economico. Di nuovo l'interno dell'album torna sul concept; pietre preziose, gioielli e documenti bancari, tutte raffigurazioni di potere economico tangibili o virtuali, affiancati ad un teschio e ad una spada antica (evidentemente l'idea è di suggerire che la Vulture Culture non è affatto un malessere della sola epoca moderna), emblematica rappresentazione dell'effimero tentativo dell'uomo di coniugare il connubio denaro-immortalità. Le tracce si muovono in tal senso, dall'esaltazione dell'io tra la folla di Let's Talk About Me, al racconto del commesso viaggiatore di Days Are Numbers (The Traveller), dall'affermazione graffiante e spietata di Vulture Culture, allo spiraglio di salvezza da tale amara prospettiva negli affetti narrati in The Same Old Sun. La
critica si muove lievemente, adagiando Vulture Culture su un
piano soft e godibile; c'è chi lo prende dal lato di un
ascolto da immaginario ottocentesco, con tanto di "atmosfera
da caffè d'inizio secolo", in cui in sostanza
si afferma di nuovo la capacità del Project di proporre
una nuova lezione di stile a fronte di un rilassamento generale
nelle produzioni rock del tempo; la chiosa finale chiarisce il
concetto:" gli otto brani che abitano in questo disco
sono melodie in cerca di un parente prossimo al quale affezionarsi.
Siete disposti ad adottarle?"; altrove l'album è
letto sotto una chiave di esaltazione del canto rispetto al passato:
"
sembra che il musicista inglese abbia voluto
privilegiare assai più che nei precedenti lavori la parte
vocale": in effetti l'album contiene una sola traccia
strumentale, peraltro molto originale (Hawkeye: omaggio al quasi
omonimo film?). |