Alan Parsons: Recording studio

(Gennaio 1994)

 

A sei anni di distanza dall'ultimo album, dopo aver venduto milioni di copie nel mondo sin dal primo disco, Tales Of Mystery And Imagination (1976) ispirato a Edgar Allan Poe, Alan Parsons è tornato alla fine del 1993 con un nuovo progetto che nel 1994 finalmente stanerà per la prima volta l'artista dallo studio di registrazione per qualche concerto dal vivo, in Europa e negli Stati Uniti.

A.P.: Dopo Gaudì (1987) iniziai un nuovo lavoro che avrebbe potuto essere dell'Alan Parsons Project: era un album basato sulla vita di Freud. Se ne interessò un produttore teatrale e quel progetto si trasformò prima in un musical per il palcoscenico, poi in un disco. Eric Woolfson (mio partner nel Project) dovette scrivere altre canzoni da inserire in Freudiana, spettacolo che per più di un anno andò in scena a Vienna con grande successo.

S.M.: Tu hai prodotto tutto la musica dello spettacolo?

A.P.: E stata un po' una frustrazione per me: realizzai quel disco come produttore, non ero l'artista, venne pubblicato dalla Emi come Freudiana, ma ebbe un successo limitato. Problemi legali ne impedirono la pubblicazione al di fuori dell'Europa e lo spettacolo, dopo Vienna, si è fermato. E' un peccato! Forse un giorno riusciremo a farlo girare per il mondo.

S.M.: Così, dopo quasi 15 anni di vita del Project, nel 1991 hai deciso di dedicarti alla carriera solista. Come sei arrivato a questa conclusione? In fondo il Project è sempre stato un gruppo molto particolare, completamente aperto.

A.P.: In realtà non sono quello che correntemente viene considerato "solo artist": per concepire, scrivere e produrre un album dipendo ancora molto da diverse persone, da altri musicisti. Il Project è finito perché Eric Woolfson non è più coinvolto nella mia attività. Eric continua a scrivere canzoni per il teatro, vuole fare questo. Allora io ho detto: "Bene! Io invece voglio continuare a far dischi, per cui è giusto che li faccia per conto mio".

S.M.: Il nuovo disco, "Try Anything Once", comunque sembra essere la continuazione dei precedenti: segue la stessa filosofia essenziale, alcuni membri del gruppo sono identici, lo stile è invariato, vagamente pinkfloydiano; magari è cambiato approccio, sei orientato verso la produzione di singole canzoni piuttosto che verso gli album concept che hanno caratterizzato il Project. Ancora oggi però sembra resistere il tuo concetto di "gruppo intercambiabile".

A.P.: Non ho mai pensato di dover mantenere in eterno uno stile, di seguire un particolare genere musicale. "Interchangeable band" secondo me significa avere la possibilità di usare diversi musicisti. Il marchio di fabbrica credo che per me sia stato l'intercambiabilità delle voci, dei cantanti che ho utilizzato in tutti questi anni, da Colin Blunstone a Gary Brooker, da Arthur Brown a John Miles, Kiki Dee, Allan Clarke. In fondo sono partito con lo stesso chitarrista, batterista, tastierista e direttore d'orchestra che ho usato per tanti anni. Personalmente credo che il concetto si manifesti meglio quando le canzoni cambiano stile attraverso l'organico.

S.M.: Come scegli le voci che devono partecipare ai tuoi progetti?

A.P.: Le scelgo sulla base del carattere delle canzoni, considerando le caratteristiche d'ogni voce, la loro estensione. Ian Bairnson (chitarrista) per esempio ha una voce piuttosto bassa e tende a scrivere canzoni per un registro vicino alle caratteristiche della sua voce, poco confortevole per altre voci. Grazie a Eric Stewart, che nel nuovo disco ha cantato due di queste canzoni ("Siren Song" e "Wine From The Water"), è venuto fuori un buon risultato: Eric ha cantato più in basso del suo registro naturale, questo ha aggiunto personalità al suo e al mio lavoro.

S. M.: Non credi che questa apertura, questo concetto d'intercambiabilità, abbia qualcosa a che fare con il tuo percorso professionale? Hai iniziato come tape operator negli studi londinesi della Emi in Abbey Road, poi hai fatto il tecnico del suono, il produttore, l'artista. Pur essendo un musicista (agli esordi, chitarrista in una blues band), la tua è una carriera piuttosto singolare.

A.P.: Fondamentalmente io mi considero ancora un produttore di dischi e cerco di permettermi tutti i lussi che un produttore normalmente si concede: lavorare ora con un artista, ora con un altro e un altro ancora. Solo che nel mio caso prendo per me tutta la gloria (come produttore e come artista), ma non molti soldi in più... Bisogna dire che sicuramente sono pagato di più come artista che come produttore!

S.M.: Su un antico libro inglese che elencava tutti i musicisti pop/rock, alla voce Alan Parsons c'è scritto: "there's more to the recording industry than just being a musician", ovvero è più un uomo dell'industria della registrazione che un musicista. Secondo te è corretta questa descrizione?

A.P.: La tecnica di registrazione è ormai diventata una parte dell'arte della composizione, ma non c'è molta gente disposta a riconoscerlo. Negli anni Sessanta tu scrivevi una canzone, poi andavi a registrarla: punto! I Beatles hanno contribuito ad affermare altri metodi: abbiamo questa canzone, ma cosa succederebbe se facessimo scorrere il nastro al contrario, o altre cose del genere? Questo non vuol dire di certo creare un arrangiamento, ma cambiare completamente il senso, la forma, il feeling di una canzone, attraverso la maniera in cui viene registrata. Questa è la ragione per cui gli ingegneri del suono e i produttori sono diventati così importanti, dall'epoca dei registratori a quattro piste. Oggi siamo a 32 piste, 48, 64, a volte 72 piste! E molto probabilmente non ci fermeremo qui... Tecnici del suono e i produttori sono quasi più importanti del compositore e dei musicisti, giocano una parte determinante nella nascita di un disco.

S.M.: Come concepisci abitualmente una canzone? Parti dall'uso della tecnologia, dalla tecnica di registrazione, oppure componi tradizionalmente?

AP.: Compongo come chiunque altro: parto dalla canzone, dalle sue qualità, dalle sue caratteristiche intrinseche (orecchiabilità, ecc.); poi comincio a pensare in che forma posso realizzarla per metterla dentro a un disco. C'è differenza fra una canzone e un disco. La canzone è una canzone, il disco è un disco: sembra un concetto ovvio, scontato, ma non lo è affatto. Non voglio dire che le due cose non abbiano punti di contatto, ma rimangono in ogni caso due prodotti differenti.

S.M.: Quando e come hai incominciato a lavorare negli studi di Abbey Road?

A.P.: Era il 1968. Lavoravo già alla Emi, in un altro settore, fuori Londra: mi occupavo di duplicazione di nastri preregistrati (bobine, non cassette). Facevo copie dei nastri che provenivano da Abbey Road: sentii Sgt Pepper dei Beatles e mi abbagliò! Decisi che avrei voluto lavorare col suono. Prima pensavo che avrei lavorato per tutta la vita con un cacciavite e un saldatore in mano poi realizzai che volevo essere coinvolto veramente, operativamente, con quel suono.
Allora scrissi una lettera al direttore degli studi di Abbey Road: sorprendentemente mi chiamarono per un incontro e due settimane dopo mi ritrovai a lavorare là!... Fortuna, che ti devo dire!!!

S.M.: Beh... tu all'epoca eri già un dipendente Emi.

A.P.: Diciamo che sono arrivato nel posto giusto al momento giusto. Già lavoravo per loro, per cui non si trattava di una nuova assunzione: mi hanno solo trasferito da un posto di lavoro a un altro.

S.M.: Successivamente hai avuto la fortuna di partecipare alle session dei Beatles per Abbey Road. Cosa hai fatto in quel disco?

A.P.: Le mie mansioni erano umilissime: facevo il the, badavo alle macchine (3M, otto piste) e ai nastri, montavo e smontavo bobine, cose del genere.

S.M.: Nel 1972, sempre negli studi di Abbey Road, tu hai registrato uno dei più grandi successi discografici di tutti i tempi: The Dark Side OF The Moon dei Pink Floyd.

A.P.: Quel disco lo abbiamo inciso su 16 piste. A quell'epoca aveva uno stipendio base di 35 sterline la settimana...

S.M.: Per The Dark Side Of The Moon hai ricevuto la tua prima nomination al Grammy Award come sound engineer; negli anni successivi hai ricevuto la bellezza di altre nove nomination, ma non hai mai vinto! Sfortuna o cosa?

A.P.: Ah... ah... ah... semplice sfortuna, credo... Tu lanci una moneta per aria, testa o croce, punti sulla testa, e per dieci volte di fila esce croce!!! Bisogna però sottolineare che il Grammy Award, come tutti i premi (Oscar, ecc.), pur non essendo preaggiudicato è abbastanza influenzato dalle case discografiche più importanti. Se non lavori con le major, hai possibilità sicuramente infenori di vincere un Award, perché fai parte di un mercato "minore".

S.M.: Nel 1976, quando hai iniziato l'attività del Project con Tales Of Mystery And Imagination, come hai registrato il tuo debutto discografico?

A.P.: Allora in Abbey Road c'erano macchine 24 tracce: nello Studio 2 dove ho registrato quel disco nell'arco di un paio d'anni c'era un ottimo banco Emi (16 canali), l'ultima serie realizzata dalla casa. Quel banco adesso lo possiede Mike Hedges (produttore): lo usa nel suo studio, in Francia, lui crede ancora nella vecchia tecnologia.

S.M.: Successivamente hai lavorato molto su mixer Amek Angela (con automazione). Per rimixare Tales Of Mystery And Imagination nel 1987 hai affermato che dall'Amek hai mixato direttamente in stereo su Sony 1630. È un tuo metodo abituale di lavoro?

A.P.: Da quando ho iniziato a usare il multitraccia digitale Sony (3324) ho sempre mixato su due piste del 3324: trovo sia un'ottima soluzione, perché se fai un mixaggio e hai un piccolo problema in un punto puoi andare al punto preciso, entrare rapidamente in registrazione, correggere e uscire, senza perdite di tempo. Generalmente trasferisco i miei mixaggi su dat (digitalmente). Per l'ultimo album sono andato su Sonic Solutions (su hard disk) per crossfade, editing e mastering finale. Quando arrivo al mastering, so le modifiche che voglio apportare: le prevedo su Akai DD1000, faccio esperimenti, risento, mi assicuro che tutto funzioni come desidero.

S.M.: Quando hai cominciato a lavorare col multitraccia digitale?

A.P.: Da Stereotomy, registrato interamente in digitale: era il 1984. Mi pare di aver mixato già "Eye In The Sky" in digitale (su Sony 1630).

S.M.: Chiedo spesso agli artisti, ai tecnici del suono e produttori qual'è secondo loro la differenza tra registrazione analogica e digitale. Gli artisti abitualmente rispondono istintivamente, senza tante distinzioni tecniche: è rarissimo ottenere una risposta scientifica sull'argomento. Per te ora qual è la vera differenza tra il suono registrato su una macchina digitale e quello registrato su una macchina analogica?

A.P.: In termini tecnici le distorsioni sono differenti: da una macchina analogica ottieni un certo tipo di distorsione completamente diverso da quella di una macchina digitale. Questa distorsione (analogica) viene percepita dall'orecchio umano come calore del suono. La distorsione di una macchina digitale viene percepita invece come asetticità e durezza del suono. Ma è solo la maniera in cui l'orecchio umano interpreta differenti tipi di distorsione. Io penso che la distorsione introdotta da un sistema di registrazione digitale sia molto più vicina alla realtà. Molte persone però amano di più il degrado introdotto dai sistemi analogici. Se tu stai combattendo per ottenere un suono perfetto, col digitale finisci più vicino. Molti preferiscono il suono imperfetto, e scelgono l'analogico. Questione di gusto!

S.M.: Adesso lavori nel tuo studio, Parsonics, in un villaggio del Sussex. Come lo hai concepito e con quali finalità?

A.P.: Potrai crederci oppure no, ma quando ha concepito lo studio avevo come unico obiettivo quello di costruire un ambiente di lavoro efficace e funzionale al costo più basso possibile! Questo perché lo studio precedente, The Grange, che risiedeva in un'altra mia proprietà, ha assorbito per la costruzione una tale quantità di denaro che ora che so d'essere troppo zingaro per rimanere a lungo in un posto non posso permettermi d'investire così tanti soldi in un progetto. In quello studio sono riuscito a registrare solo due dischi (Gaudi e il precedente), è stato molto duro quando io e lo mia famiglia abbiamo deciso di spostarci. Poi ho cominciato a costruire un secondo studio, ma i lavori sono stati interrotti dalla decisione di andare a vivere in America. Subito dopo decisi di tornare in Inghilterra di conseguenza ho attrezzato il nuovo studio spendendo circa un quinto di quel che avevo speso la volta precedente! Ho dovuta sottostare a certi compromessi, ma suona bene, funziona. Non credo ci siano compromessi nel prodotto finale e questo è quel che conta. The Grange era stata costruita come uno studio commerciale, questa invece è solo il mio studio privato, tanto per lavorare come lavoro io. Costruire uno studio costa molto: l'investimento è alto, ci vuole molto tempo per ammortizzarlo completamente. Oggi il noleggio di un'ora di post-produzione video o di audio per il video costa una barca di soldi, mentre un'ora di uno studio audio costa molta meno, ma a fronte del capitale investito la tariffa di noleggio è irrealistica: gli studi dovrebbero costare almeno due volte tanto. Questo ha favorito la moltiplicazione degli home-studio. Le case discografiche pensano che affittare uno studio oggi costi troppo, cosa ridicola, perché gli studi vengono affittati sotto costo. Di conseguenza le case discografiche investono denaro in strumenti e apparecchiature per la registrazione destinate agli artisti. Questo significa la progressiva scomparsa degli studi commerciali.

S.M.: Quali sono i compromessi di Parsonics?

A.P.: Direi soprattutto le rifiniture, l'apparenza, dati esteriori. Il trattamento acustico è eccellente: l'ho progettato da solo, con esperienza e buon senso. Solo alla fine ho chiesto una piccola consulenza acustica, per disegnare alcuni pannelli.

S.M.: Com'è equipaggiato lo studio?

A.P.: C'è la solita console (Amek Angela, 51 ch), con due Sony 3324. E uno studio dominato dalle tastiere, campionatori ed expander. Mi piace comporre sulle tastiere; per le quali ho un mixer separato, che poi manda il segnale al banco in stereo. Tieni presente che la regia sarà al massimo 35 mq, mentre lo studio è leggermente più piccolo.

S.M.: Con un sistema dominato dalle tastiere, perché non le tieni fuori e non le mandi direttamente nel mix definitivo?

A.P.: Non amo lavorare così: io registro sempre tutto su nastro. Alla fine di una giornata di lavoro mi piace smontare i nastri e poter dire: "questo è il mio disco", piuttosto che guardare il dischetto di un computer e dire: "penso che questo sia il mio disco"!

S.M.: Data la carenza di spazio in sola di registrazione, per il nuovo disco la batteria l'hai registrata li oppure altrove?

A.P.: Tutti i suoni che senti sono pad e campionatori, tranne piatti e charleston.

S.M.: Per registrare l'orchestra (Philharmonic Orchestra, diretta come sempre da Andrew Powell) in due brani hai utilizzato la nuova grande sala degli Air Studios londinesi. Qual è il tuo giudizio sulla Lyndhurst Hall?

A.P.: È' fantastica! Ha un unico difetto: c'è un po' troppo riverbero naturale: stanno ancora lavorando per cercare di risolvere il problema. nella maniera più accurata possibile. Nella stessa sala ho potuto ascoltare la registrazione del tema della "Pantera Rosa" di Henry Mancini: un suono eccellente.Quindi sapevo di poter ottenere un gran risultato.
Per certa musica il suono rischia di sfuggire al controllo: io stesso ho dovuto usare la tecnica del dose miking (ogni coppia di violini, per esempio, aveva un microfono vicino, un Neumann), mentre se avessi utilizzato dei panoramici mi sarebbe sfuggito tutto. Sui legni ho usato microfoni Schoeps, poi non mi ricordo cos'altro... ormai faccio tutto automaticamente, non scrivo mai niente! L'organico era abbastanza vasto: 66 elementi.I professori hanno suonato sulle basi preregistrate: in sala c'erano 66 cuffie. Solo "Re-jigue" è stata eseguita integralmente dal vivo, su clic.

S.M.: All'inizio del disco, nel brano "The Three Of Me", c'è un bel pianoforte che sembra acustico.

A.P.: Sì, è un piano acustico: un Grotian Steinweg, il mio pianoforte personale, rimasto a lungo in magazzino, anche perché con le sue dimensioni ragguardevoli occuperebbe quasi tutta la sala di registrazione! E' un pianoforte stupendo, costruito dall'ultimo membro della famiglia Steinway. Ce ne sono solo quattro esemplari: Andrew Powell ne ha uno, Eric Woolfson un altro, George Martin il terzo e io il quarto.

S.M.: Ve li siete comprati tutti voi?!?

A.P.: Sì! Nonostante componga sulle tastiere, mi piace molto il pianoforte: nessuno strumento riuscirà mai a eguagliare il suono di un vero pianoforte.

S.M.: Quando fai i suoni nel tuo studio, quale sistema di monitoraggio usi abitualmente come riferimento?

A.P.: E' un sistema progettato da Roger Quested, triamplificato con Hill (bassi), Yamaha (medi) e Yamaha (acuti). Inoltre ho una coppia di piccole casse Genelec. Per il missaggio di solito non spendo più di cinque minuti di fila su un sistema di monitoraggio, continuo a cambiare: cuffie, piccoli monitor, grandi monitor; faccio uno cassetta e la vado ad ascoltare in macchina, per controllo. Il risultato di tutta questa è sicuramente un compromesso che ritengo sia in grado di soddisfare chiunque.

S.M.: L'esperienza maturata in campo tecnico negli ultimi anni ti ha portato a realizzare con Court Acoustics un cd di riferimento, "Sound Check Audio Test and Demonstration cd" (ora è distribuito da Italcida, Ndr).


A.P.: C'è voluto parecchio tempo per decidere cosa doveva essere questo cd, per ottenere l'autorizzazione a utilizzare il mio stesso materiale, ho persino dovuto pagare per ottenerlo.
E' stato un progetto difficile da realizzare ed è frustrante non avere il tempo di curarne bene la commercializzazione: finora è stato venduto soltanto in Inghilterra, soprattutto durante le mostre di settore (APRS, ecc.).

S.M.: A cosa serve questo cd?

A.P.: È destinato agli operatori professionali del settore (tecnici del suono, di studio e dal vivo, ecc.) e pensavamo d'estendere il progetto nell'interesse dei musicisti casalinghi che sono un numero grandissimo e non hanno riferimenti per tarare gli strumenti, sistemi d'ascolto, ecc. Sicuramente il prodotto non è stato ancora collocato correttamente sul mercato.

S.M.: Un paio di anni fa hai anche scritto un libro.

A.P.: Si chiama The Master Tape Book ed è stato realizzato dall'associazione degli studi di registrazione inglesi (APRS) insieme con l'associazione dei produttori (Re-Pro), per cercare di educare le case discografiche e tutti gli operatori dell'industria del disco all'uso corretto dei master tape. È una tipica pubblicazione didattica che insegna come descrivere correttamente, secondo standard internazionalmente riconosciuti, il contenuto di un nastro, insegna a compilare etichette e a prenotare lo studio giusto con le macchine giuste per la produzione senza rischiare di sbagliare formato, ecc. E' stato fatto per evitare gli errori più ricorrenti nel nostro lavoro che spesso finiscono per costare parecchi soldi. Questo libro verrà aggiornato penso ogni due-tre anni. Per esempio quando venne stampata la prima edizione noi non sapevamo nulla sul Tascam DA88, nè sulla DCC. Ma devo confessare che fin'ora ancora non ho ascoltato la nuova Digital Compact Cassette: probabilmente non lo farà mai! Ah... ah... ah...

S.M.: Hai mai ascoltato un MiniDisc?

A.P.: No! Probabilmente sarà un ottimo formato per uso domestico. E' un mezzo molto efficace e potente per immagazzinare dati, ma non so quanto sia giusto utilizzarlo in audio...

S.M.: In Inghilterra avete creato un'associazione fra produttori, Re-Pro, che discende dalla British Record Producers Guild, sempre in seno all'APRS. Quali sono le finalità?

A.P.: E' nata quasi come un piccolo club, dal momento che i produttori abitualmente tendono a non incontrarsi fra loro, non si conoscono, non si scambiano idee. Alla fine credo che l'obiettivo sia proprio questo: io attraverso Re-Pro incontro persone che fanno il mio stesso lavoro. I produttori discografici hanno parecchi problemi e possono aiutarsi a vicenda, soprattutto nei contatti con le case discografiche, coi management, per stabilire i loro diritti. Con l'evoluzione della tecnologia, la protezione dei diritti della categoria diventa sempre più difficile: dev'essere aggiornata continuamente e questo non accade quasi mai. Re-Pro fondamentalmente è nata per questo. I produttori non hanno nessun diritto a meno che non partecipino alla composizione e questo non è giusto. Con Re-Pro vorremmo cercare di cambiare la situazione. Non sarà facile: sarà una lunga battaglia, ma vogliamo che vengano riconosciuti i nostri diritti su ogni registrazione.

S.M.