Intervista a David Paton
Tratta da "Prog Italia" n. 30 - Maggio 2020
 
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Sulle corde di
DAVID PATON

Testo: Francesco Ferrua


Nato a Edimburgo il 29 ottobre 1949, David Paton ha lasciato un’impronta significativa nel mondo della musica, toccando trasversalmente differenti stili e generi musicali. Le sue corde – sia che si tratti di quelle di un basso, di una chitarra o di quelle vocali – hanno saputo regalare grandi emozioni.


David, quali sono stati i tuoi primissimi passi nel mondo della musica, quelli che ti hanno avviato a diventare uno straordinario bassista, dotato anche di una splendida voce, che vanta oggi un’invidiabile carriera internazionale?
Presi la mia prima chitarra quando avevo undici anni mentre mi trovavo in vacanza con la famiglia a San Sebastian, in Spagna. La corsa dei tori era una parte memorabile di quel viaggio e, in qualche maniera, ci finii immischiato e fui inseguito da numerosi tori infuriati lungo la via principale. Mi colpì molto – e fu una sorta di presa di coscienza – vedere un ragazzo spagnolo, che avrà avuto all’incirca la mia età, suonare la chitarra. Stava seduto sul davanzale di una finestra, io mi misi a sedere sul pavimento e restai a osservare e ascoltare quel meraviglioso suono. Assillai i miei genitori perché mi comprassero una chitarra, finché cedettero alla mia richiesta. Per il viaggio di ritorno a Edimburgo, la chitarra fu riposta in una scatola di cartone e, sorprendentemente, riapparve senza nemmeno un graffio sul nastro trasportatore dell’aeroporto. Per mesi mi misi a imparare a suonarla grazie ai manuali per chitarra e a qualsiasi spartito che riuscissi a trovare. Quando avevo sedici anni mia sorella notò un annuncio sull’Evening Newspaper: cercavano un chitarrista solista. Si trattava dei Beachcombers e le audizioni si sarebbero tenute presso il club locale. Non possedevo un amplificatore e nemmeno una chitarra decente, ma il fidanzato di mia sorella era un musicista e per l’audizione mi imprestò il suo amplificatore Selmer e la sua Fender Stratocaster. Ottenni quel posto e non riuscivo a crederci. I Beachcombers erano una delle principali band di Edimburgo ed erano grandiosi. La loro musica stava a cavallo tra il soul e il R&B, brani come Ain’t Too Proud To Beg, 634-5789, I’m A Soul Man e Baby I Need Your Loving.

Il primo vero approdo in grande stile al mondo discografico avviene nel 1974, con i Pilot. La band ti ha visto stringere un legame particolare col compianto Billy Lyall, tastierista e co-autore assieme a te dei brani contenuti nel primo FROM THE ALBUM OF THE SAME NAME. Qual è il tuo ricordo di Billy e del vostro sodalizio artistico?
Billy e io ci incontrammo quando entrambi facevamo parte dei Bay City Rollers. Diventammo amici e prendemmo l’abitudine di andare all’archivio musicale di Edimburgo per prendere in prestito musica per chitarra e flauto – Billy era un eccellente flautista. Lasciai i Bay City Rollers ma non persi l’abitudine di frequentare l’archivio musicale. Così, un giorno, mi imbattei in Billy mentre stavo uscendo dall’edificio. Ci incontrammo sulla porta e lui sembrava imbarazzato nel vedermi, divenne tutto rosso in faccia e all’inizio parlava a malapena. Pioveva mentre stavamo sulla soglia a conversare garbatamente e la rilevanza di quel momento è riflessa nella canzone che scrissi, intitolata The Library Door – in quella canzone ho provato a descrivere quell’incontro che rappresentò davvero la nascita dei Pilot, quindi fu un incontro decisivo per entrambi. Lui mi disse di aver mollato i Bay City Rollers poco dopo che io me ne ero andato e mi raccontò che ora stava lavorando come tecnico del suono presso i Craighall Studios. I Craighall erano sussidiari della EMI e vi registravano molti artisti scozzesi. Proponemmo di metterci insieme e lui suggerì che avrebbe potuto pianificare del tempo presso lo studio per registrare delle nostre canzoni originali: “Tu puoi suonare il basso e la chitarra, mentre io il piano e il flauto”, disse. Mi invitò a visitare lo studio la settimana successiva. Fui veramente colpito dai Craighall Studios, era uno studio assolutamente professionale e l’allestimento era eccellente. Billy mi fece ascoltare alcune delle canzoni che aveva composto e registrato, era interessante perché Billy gestiva le registrazioni, suonando e cantando tutto per suo conto. Le sue canzoni erano davvero valide e io ne fui affascinato, era proprio la giusta motivazione per me nello stimolarmi a spendere più tempo a scrivere canzoni. Fissammo una data nella quale avremmo cominciato e lasciai i Craighall molto eccitato alla prospettiva di registrare con Billy. Le registrazioni iniziali erano molto essenziali e le composizioni erano un po’ acerbe, avevamo solo da migliorare. Trascorremmo un sacco di tempo ascoltando musica e suonando assieme. Uno dei preferiti era Elton John e amavamo il suo album MADMAN ACROSS THE WATER. Assistemmo anche ad alcuni concerti, tra i quali una esecuzione de Il Flauto Magico di Mozart. Prendevamo molto sul serio la nostra musica e il tempo trascorso in studio di registrazione era veramente ben apprezzato e trattato col dovuto rispetto; per quanto fosse rilassante, eravamo lì per lavorare. Solitamente, nella stessa notte potevamo completare una canzone di Billy e una mia, a testa bassa sul lavoro e senza distrazioni come se si trattasse di una missione. Era davvero una bella collaborazione musicale ed eravamo pure buoni amici.

I Pilot hanno segnato l’inizio della vostra collaborazione con Alan Parsons e, di lì a breve, la nascita dell’Alan Parsons Project vi ha visti rivestire un ruolo decisivo a livello musicale nel dare sostanza alle idee di Alan ed Eric Woolfson.
Eric mi chiamò e iniziò a illustrarmi le sue idee per l’Alan Parsons Project. Ci incontrammo all’aeroporto di Heathrow e fu lì che ebbero luogo le nostre prime conversazioni. Eric aveva chiesto anche a Billy, Stuart e Ian di suonare nel primo album – TALES OF MYSTERY AND IMAGINATION – così questo progetto avrebbe visto nuovamente i Pilot assieme nello Studio 2 degli Abbey Road, con Alan al timone. Le registrazioni ebbero un’ottima partenza e fui veramente impressionato dalle abilità di Eric come compositore e pianista. Aveva un modo sereno di riversare su di noi la sua musica; si sedeva al piano, suonava una nota e ci diceva: “Ragazzi, cosa potete farne di questo?”. Dedicavamo un sacco di tempo a ridare forma alle canzoni e agli arrangiamenti. Avevamo un grande rapporto lavorativo e la maggior parte delle volte la musica filava liscia. Alan svolgeva il ruolo di produttore, non era partecipe dal punto di vista musicale. Egli produceva ciò che noi creavamo e svolgeva molto bene il suo lavoro.

L’alchimia tra Alan ed Eric ha dato vita a una lunga serie di album che restano oggi nella storia della musica pop-rock internazionale. Com’era, all’epoca, la sensazione di essere una parte importante di quel progetto – come bassista e occasionale vocalist – e qual è la tua sensazione oggi ripensando a quell’esperienza?
Mi è piaciuto lavorare con l’Alan Parsons Project, la musica era buona e in studio di registrazione c’era un clima disteso. Suonavamo ciò che sentivamo essere congeniale con le canzoni che Eric stava scrivendo. Vorrei che avessero accettato di suonare dal vivo nel periodo in cui stavamo ottenendo successo, respingevano l’idea ogni volta che gliela proponevo. La cosa mi rese scontento e quando Elton John mi domandò di unirmi a lui in tour non potei rifiutare l’offerta, così lasciai il Project giusto prima che l’album GAUDI venisse registrato.

Tuttavia, pochi anni più tardi, ti unisti alla band per la prima e unica apparizione live dell’Alan Parsons Project, avvenuta al festival musical denominato Night Of The Proms, in Belgio, nel 1990. In quell’occasione cantasti Old And Wise e suonasti la chitarra acustica sui vari brani. Come avvenne quell’ingaggio?
Alan mi chiamò e mi parlò del concerto. Pensai: “Finalmente vuole suonare dal vivo!!!”. Ma dopo quel concerto non venni più contattato.

Assieme al chitarrista Ian Bairnson sei uno di quelli che ha sempre fatto maggiore opera di convincimento nei confronti di Alan ed Eric nel portare dal vivo le loro musiche. Inutilmente, almeno fino all’inizio della carriera solista di Alan con TRY ANYTHING ONCE e il primo vero tour nel 1994. Non venni contattato da Alan per prendere parte alla band live? Come mai non c’è mai stata l’occasione per te di suonare nuovamente per Alan dopo il Night Of The Proms del 1990, contrariamente a quanto accaduto ad altri membri come Ian, Stuart Elliott, Richard Cottle e Andrew Powell?
Non ho mai capito perché non mi chiesero di suonare con loro. In ogni caso, dopo aver sentito gli incubi raccontati da Stuart e Ian, sono lieto di non aver suonato con loro. Forse i miei angeli custodi hanno vegliato su di me.

Molto interessante. Posso osare domandarti quali storie ti hanno raccontato Ian e Stuart a riguardo del tour con Alan?
Mi è stato riferito che l’agente scappò con tutti i soldi, così nessuno venne pagato. Questo è quanto fu raccontato a Ian e Stuart. Sarà vero? Qualcun altro sottrasse il denaro e non pagò Ian e Stuart?

Negli ultimi anni hai realizzato due Cd tributo al Project, dove reinterpreti alcuni dei più grandi successi di Alan ed Eric. Nonostante tutto, sembri nutrire un forte sentimento nei confronti del Project e, in particolare, molte tue dichiarazioni lasciano intendere un’ammirazione profonda e una sincera gratitudine verso Woolfson.
Ho provato a dare manforte nel rendere chiaro che la mente dietro il Project era Eric Woolfson. Egli era completamente responsabile della musica, delle tematiche di ogni album, dell’artwork, dei musicisti e gestiva i rapporti con l’etichetta discografica. Alan ha scritto una manciata di brani strumentali ma quello è stato il suo unico contributo in termini musicali. Pensavo fosse molto ingiusto che Eric non venisse rinonosciuto o che non gli venisse dato credito per il suo ruolo di creatore dell’Alan Parsons Project. Inoltre, Ian si arrabbiò molto per il fatto che Alan scelse di continuare a suonare dal vivo senza di lui, fu davvero devastato da quella decisione. Nel 2014 a Ian fu diagnostico un problema di demenza, così proposi a lui che avremmo potuto registrare alcune canzoni assieme, per puro divertimento. Eravamo felici di collaborare nuovamente, così finimmo per realizzare l’album. Venne publicato il giorno del compleanno di Ian, in segno di tributo a lui oltre che a Eric.

Essere di casa presso i mitici Abbey Road Studios ti ha permesso di entrare in contatto con un’infinità di artista, di differente estrazione musicale. Tra questi i Camel di THE SINGLE FACTOR (1982) e STATIONARY TRAVELLER (1984).
Andy Latimer mi aveva chiesto di prendere parte alle registrazioni dell’album NUDE, ma sfortunatamente non ero disponibile. Successivamente mi chiamò per THE SINGLE FACTOR. Ero libero per registrare con i Camel e fu un vero piacere lavorare con loro. Andy è una persona molto gentile e sincera. Da una cosa ne nasce un’altra e divenni sempre più coinvolto nel lavoro che Andy stava facendo. Andavamo d’accordo a livello personale, così come in studio di registrazione.

Appari fugacemente al fianco di Latimer anche per DUST AND DREAMS (1991) e HARBOUR OF TEARS (1996), album che segnano l’avvio della rinascita dei Camel dopo il trasferimento negli Stati Uniti. Sei ancora in contatto con Andy?
Attualmente non sono più in contatto con lui. Gli scrissi quando mancò Chris Rainbow, lui rispose alla mia email ma non proseguimmo nella corrispondenza.

L’album KEATS (1984) vede i principali membri del Project affiancati da Pete Bardens alle tastiere, sotto la produzione di Parsons. Tu che hai avuto modo di lavorare a fianco di tanti tastieristi, cosa ricordi in particolare di lui e del suo approccio alla tastiera?
Incontrai Pete Bardens per la prima volta nel 1982, quando registrammo l’album THE SINGLE FACTOR dei Camel. Lui fu presente per un giorno soltanto, per suonare sul brano Sasquatch. Era silenzioso e assolutamente concentrato nella musica che stava suonando. Benchè credo che alcune persone fraintendessero il suo modo di essere e trovassero difficoltoso stringere amicizia con lui, mi piaceva e comprendevo la sua passione. Pete era ossessionato dalla musica ed era molto esplicito nelle sue idee. Alle volte era difficile per lui adattarsi a ciò che pensavano gli altri membri della band. Come tastierista era bravissimo nel trovare il giusto assolo o il suono adatto alla canzone sulla quale stava lavorando ed era rapido nel farsi venire le idee. Davey Johnstone, nel suonare con Elton John, era un altro con queste stesse caratteristiche. Il contributo di Pete all’album KEATS è stato molto importante. Le sue canzoni e il suo modo di suonare hanno creato l’atmosfera dell’album. Ho molto apprezzato le sue composizioni e lo andai a trovare nella sua casa a Londra. Trascorremmo delle serate allegre e rilassanti, suonando e ascoltando musica. Erano bei tempi. Ho imparato che nulla dura per sempre. KEATS era molto promettente ed è un peccato che la EMI non abbia dato seguito alla opzione contrattuale per un eventuale secondo album.

Fish, leader storico dei Marillion, è un altro che si è avvalso di te nei primi anni Novanta, sia per vari album (INTERNAL EXILE, SONGS FROM THE MIRROR, SUITS), sia in concerto. Come ricordi lui e la sua musica?
La band era ottima e si costruiva la musica assieme nello studio. Lui era un orco, una persona grezza e non troppo piacevole da avere attorno. Penso che commisi un errore nell’entrare a far parte della sua band.

La scena prog sembra averti preso seriamente in considerazione in quel periodo: anche Rick Wakeman ti ha voluto al suo fianco in quegli anni e anche per lui si è trattato di un doppio ingaggio, studio e live.
Il mio amico Jon Turner conosceva Tony Fernandez, il batterista di Rick. Rick era in concerto a Edimburgo e Tony invitò Jon, accompagnato da un ospite, a quel concerto. Io fui l’ospite. Non ero convinto della musica di Rick, è così lontana dagli Yes e feci fatica a godermi il concerto. Dopo lo spettacolo incontrammo Rick e la band al loro hotel. Era il 1988, Elton John aveva avvisato la band che si sarebbe preso un anno libero. Io vivevo ancora nel Berkshire, c’era uno studio di registrazione nelle vicinanze, a Wraysbury, di proprietà di Brian Adams – non quel Bryan Adams. Brian era una sorta di teppistello, un bullo, ma un simpatico filibustiere. Si occupava di Rick, così come di Denny Laine – Denny aveva cantato con i Moody Blues (Go Now). Mi era stato chiesto di fare una session al basso per Rick. Quando giunsi, Rick era nella control room col tecnico del suono e stavano riascoltando un brano piuttosto complicato. Facemmo le presentazioni e mi piacquero immediatamente lui e le sue maniere amichevoli. Mi domandò se mi sarei sentito a mio agio col brano che avevano appena ascoltato, risposi che avrei avuto bisogno di ascoltarlo un paio di volte e poi sarei stato pronto per registrarlo. Lui rispose: “Ok, nessun problema”. E sparì nello studio. Mi venne chiesto di essere maggiormente coinvolto nei suoi progetti musicali e la cosa mi fece piacere. L’album al quale stavo lavorando era TIME MACHINE. Quella musica mi piaceva più di quanto avessi ascoltato al suo concerto. Avevamo appena finito le prove per un tour e le date erano già pianificate quando ricevetti una chiamata da Charlie Morgan, il quale mi diceva che Elton aveva intenzione di fare alcuni concerti e che mi voleva con lui. La cosa mi mise in una posizione veramente difficile. Dissi a Charlie che avrei davvero deluso Rick se mi fossi tirato indietro dal prendere parte al suo tour, così la mia risposta fu: “No, non posso”. Quello fu un grande rimpianto per me, avevo sacrificato una grande opportunità per non deludere Rick. Rimpiangerò sempre quella decisione. Iniziammo a suonare in giro come una band: Tony Fernandez alla batteria, Ashley Holt alla voce, Rick e io, con l’occasionale aggiunta di Dzal Martin alla chitarra. Fu fantastico, iniziavo ad amare la complessità della musica e Tony e io diventammo presto una sezione ritmica ben affiatata. Seguì l’album THE NEW GOSPELS e andammo in Israele per suonare con l’orchestra sinfonica di Haifa. Nel 1990 registrammo l’album AFRICAN BACH. Una compagnia sudafricana voleva che girassimo un video per loro a Johannesburg, io dissi a Rick che non avrei potuto farlo per via delle regole che all’epoca venivano imposte dalla Musicians’ Union. Chiamai la Musicians’ Union domandando in merito all’ipotesi di girare un video a Johannesburg e venni minacciato di essere inserito nella lista nera se avessi suonato in Sudafrica. Alla fine ci venne concesso di girare nello Swaziland. Al termine di un concerto a Brighton, Rick mi parlò in privato. Mi disse di andare a fare due passi. Passeggiammo sul lungomare e Rick mi disse che aveva intenzione di fare alcuni concerto come duo, voleva che i suoi concerti assumessero un connotato più classico, soltanto io al basso e alla chitarra classica, con lui alle tastiere. Mi piaceva l’idea, ma quando gli domandai del salario mi disse che la paga per ogni concerto sarebbe rimasta quella attuale. Gli dissi che non mi andava, visto che il mio contributo sarebbe stato decisamente maggiore rispetto a quello di un semplice bassista; inoltre non avrebbe avuto da pagare il resto della band. Lui pianse miseria e quando gli feci notare che aveva una Rolls Royce la sua risposta fu: “Puoi avere una Rolls Royce in garage ed essere povero”. Così, gli dissi che la sua paga non mi sarebbe bastata e che avrei avuto necessità di fare ulteriori lavori con altri musicisti, la cui cosa non sembrava infastidirlo. Facemmo un bel tour assieme suonando le musiche tratte dal suo album THE CLASSICAL CONNECTION.

Perché parli di un grande rimpianto? Ok, hai dovuto dire di no a Elton John, ma sembra che tu abbia trascorso ugualmente un bel periodo a fianco di Rick, vivendo con lui belle esperienze dal vivo per un lungo periodo.
Amo la musica. Fare musica è divertente e lavorare con Rick fu uno spasso. Ma lavorare con Elton era un altro livello.

Molti lavori nei quali appari come session musician tra il finire degli anni Settanta e i primi Ottanta ti vedono suonare sotto la produzione del grande Andrew Powell (David Courtney, Chris de Burgh, Elaine Paige, Chris Rea, Kate Bush e molti altri). Cosa puoi dirci del tuo legame con Andrew?
Andrew era amico di Alan Parsons. Aveva arrangiato l’orchestra per Magic e alcune altre canzoni dei Pilot. Avevamo stretto una buona amicizia e ci tenevamo in contatto regolarmente. Andrew mi chiamava sempre per interessanti session. Ci incontriamo ancora e ho lavorato con lui per un progetto pressi i Real World Studios di Peter Gabriel proprio alcuni anni fa. Ho grande rispetto di Andrew e delle sua capacità musicali.

Parliamo di Kate Bush. Mi sono sempre domandato perché tu e gli altri membri dell’Alan Parsons Project – band al suo fianco per i primi due album di studio, THE KICK INSIDE e LIONHEART – non siate anche saliti sul palco per il suo primo e unico tour, battezzato The Tour Of Life e tenutosi nel 1979.
Quando iniziammo a lavorare con Kate, lei aveva la sua band. Ma loro, all’epoca, avevano scarsa esperienza in studio di registrazione così noi prendemmo parte alle session in studio, non mi aspettavo che venissimo impiegati anche per le esibizioni dal vivo.

Essere parte della band di Elton John per diversi album e tour tra il 1985 e il 1988 ti ha regalato anche l’opportunità di salire sul palco del Wembley Stadium di Londra per lo storico Live Aid del 1985, di fronte a un pubblico di 72.000 persone.
Sì, quella è stata indubbiamente una delle vette della mia carriera. Fu un enorme privilegio e un’esperienza elettrizzante salire sul palco con Elton John.

Dopo tanti album e tanti concerti, quale delle due esperienze pensi ti abbia dato maggiore soddisfazione?
Amo entrambe per ragioni molto differenti. Creare in studio è un grande piacere per me e ascoltare ciò che si ha creato è un’esperienza fantastica. Il lavoro in studio richiede che i musicisti siano molto accurati e sei sempre consapevole che quel che suoni verrà ascoltato da molte persone. Resta lì per sempre, dunque devi farlo correttamente. Stare su un palco necessita meno disciplina e c’è spazio per l’improvvisazione se la canzone lo permette. Il responso del pubblico è un’altra grande parte del suonare dal vivo.

Hai dato sfoggio delle tue abilità al basso spesso utilizzando anche il fretless. Qual è il tuo approccio a questo strumento? Hai preso a riferimento qualche bassista in particolare nell’avviarti al fretless?
Il fretless è più espressivo rispetto a un basso coi tasti. Già il semplice fatto di poter usare il vibrato permette di ottenere maggiore passione dallo strumento. Ho ascoltato Jaco Pastorius quand’ero più giovane, ho amato il suo modo di suonare anche se io non riuscirei mai a suonare così velocemente, ma mi diede un qualcosa a cui puntare.

Non va dimenticato che sei anche un abile chitarrista. Pochi sono pienamente consapevoli che su FROM THE ALBUM OF THE SAME NAME dei Pilot il grandissimo Ian Bairnson è presente in maniera assolutamente marginale. In cuor tuo, ti senti più chitarrista, bassista o cantante?
Quando sono in concerto sono un bassista. Quando creo la mia musica sono anche un chitarrista. Non sono un vero chitarrista solista come Ian Bairnson, ma suono la chitarra classica e la cosa mi dà grande piacere, così come costruire un assolo o una parte per chitarra.

Hai all’attivo anche una lunga serie di album solisti, per lo più autopubblicati e venduti direttamente sul tuo sito web. Come vedi il futuro dell’industria discografica? Sembri essere uno che ancora crede, fortunatamente, nel supporto fisico e non nella cosiddetta musica liquida.
Preferirei non predire il futuro della musica. Oggigiorno faccio download come chiunque altro, ma io preferisco pubblicare ancora Cd fisici.

Hai sempre nutrito un forte legame per la musica tradizionale scozzese, come dimostra il tuo primo album solista, PASSIONS CRY, del 1991. È qui che affondano le tue radici musicali?
Il mio insegnante d’arte a scuola, Roy Williamson, scrisse una delle canzoni più popolari di Scozia, Flower Of Scotland. Egli faceva parte di un gruppo folk chiamato The Corries. Mi piace la musica tradizionale e ho lavorato con molti artisti scozzesi. È nel mio sangue.

Tra il finire degli anni Ottanta e i primi Novanta hai anche prestato servizio per alcuni artisti italiani, come Ron, Renato Zero e i Matia Bazar. Cosa ricordi di queste esperienze?
Amo la musica italiana. Ascoltare Puccini resta per me un’esperienza molto emozionante. Mio padre mi introdusse all’opera in tenera età. Pagliacci di Leoncavallo ebbe un grande impatto su di me quando mio padre mi spiegò la storia. Lavorare con Ron ha avuto un simile impatto. APRI LE BRACCIA E POI VOLA è l’album sul quale lavorai e resta uno dei miei preferiti. Anche trascorrere del tempo a Genova fu un grande piacere.

Musicalmente parlando, quali ritieni essere le tre vette della tua carriera?
Tre vette? OK. Direi che la prima è stata registrare agli Abbey Road, accadde dopo tutto il lavoro svolto dai Beatles. Per qualsiasi compositore scrivere un brano da prima posizione in classifica è un obiettivo, io lo raggiunsi con January. Come musicista, lavorare con Elton John è per me una realtà, mentre per molti è soltanto un sogno.

E quali gli album ai quali, ancora oggi, ti senti più legato e dei quali vai maggiormente fiero?
Mi sono piaciuti tutti gli album ai quali ho preso parte. Li conosco molto bene e tutti mi danno piacere. Non sempre è il mio basso ciò che ascolto, mi piace ascoltare la musica come farebbe un ascoltatore, nel suo complesso.

Recentemente hai dichiarato di esserti ritirato dalla scena live, dopo essere salito sul palco per un lungo tour con Albert Hammond. Sei fermamente convinto di questa affermazione o possiamo nutrire ancora qualche speranza di rivederti suonare dal vivo?
Ho appena rifiutato una serie di concerti coi Pilot in Inghilterra. All’inizio avevo detto di sì, poi ci ho riflettuto e ho deciso che il mio cuore e la mia anima erano da un’altra parte. Ciò che faccio lo faccio per piacere e divertimento. Vedo troppo stress nel mettere assieme un tour e nella mia vita non voglio più stress. Se sarò felice con il lavoro dal vivo che mi verrà offerto, allora potrei prendere in considerazione l’ipotesi di salire nuovamente su un palcoscenico. Penso che lavorare quattro anni con Albert Hammond mi abbia reso desideroso di ritornare in studio ed essere creativo. Da quando ho lasciato Albert nell’ottobre del 2019 ho pubblicato l’album ANOTHER PILOT PROJECT, completato l’album con i giapponesi Sheep e iniziato a lavorare a un altro album solista, dunque ritengo che il tempo trascorso in studio sia molto più costruttivo rispetto al lavoro dal vivo.

Cosa c’è nel futuro musicale di David Paton?
C’è il creare in studio. Lavorare con i Sheep è stata una sfida e un grande divertimento. È un album al quale ho dato un sacco di input. Sono autore o co-autore delle canzoni assieme ai miei amici giapponesi, inoltre canto tutti i brani, suono il basso e la chitarra; sono felice di questa collaborazione. Anche il mio prossimo album solista sta prendendo forma, ho già scritto il 60% delle canzoni. Dunque, non abbandonerò tanto presto il lavoro in studio.

Gennaio 2020