Il vetro che nella sala
d'incisione divide il musicista dal tecnico del suono
è sempre stato qualcosa di più che una semplice
barriera di cristallo, creando una netta linea di
separazione fra due mondi spesso apparsi in
contraddizione. Gli artisti, considerando con una
certa diffidenza i mixer e i loro addetti, non hanno
mai voluto mettere mano ai cursori, proprietà privata
degli ingegneri, freddi esecutori e personaggi
completamente privi di interesse nella composizione.
Poi, più o meno verso il 1975, le cose hanno
cominciato a cambiare.
I gruppi hanno preso a
controllare i propri suoni autonomamente e i tecnici,
sicuramente non privi di fantasia hanno cominciato a
svilupparla in una direzione diversa, mettendosi a
creare materia prima musicale. Tra i primi a saltare
dall'altra parte del vetro due nomi illustri destini
diversi, David Henthiel, ex collaboratore di studio
dei Genesis, e Alan Parsons, il cui passato luccicava
per i lavori con Beatles e Pink Floyd. Infatti mentre
il primo è rimasto, come musicista, nell'anonimato, il
secondo ha costruito un solido impero che ormai sembra
indistruttibile. Insieme al
fedele.compagno-cantante-ispiratore Eric Woolfson, ha
dato vita all'Alan Parsons Project, un veicolo
tecnico-musicale con lo scopo di elaborare un nuovo
modo di mettere insieme le solite vecchie sette note.
Ora che la settima fase del progetto, "Ammonia Avenue"
è in circolazione da qualche settimana e già punta
alle vette più alte delle classifiche dei dischi più
venduti, l'obiettivo fissato nove anni fa può
considerarsi raggiunto. La musica è lieve ed
accattivante, suonata con grande maestria e
professionalità, pura e precisa dal punto di vista
tecnico, anche se, dati i tempi computerizzati che
stiamo vivendo ci si potrebbe aspettare un'invenzione
finale del tecnico inglese, da sempre topo di sala e
consumato maestro. Ma la novità rivoluzionaria non c'è
e nonstante i grandi pregi del lavoro, resta profondo
il dubbio che qualcosa in più si poteva fare.
La macchina del progetto si era avviata a fine '75 con
la pubblicazione di "Tales Of Mystery and
Imagination", un prodotto preciso e ricercato forse un
pò troppo sinfonico per il gusto imperante in quel
periodo. Le composizioni erano freschissime, ma,
sebbene la critica ne avesse parlato in termini
entusiastici, il successo commerciale fu praticamente
nullo. Le cose andarono meglio con il successivo, "I
Robot", ispirato ai racconti fantascientifici di
Asimov, e con il terzo "Pyramid" venne il successo che
permise a Parsons di saltare definitivamente la
barriera che separava la sua essenza di tecnico da
quella di artista, ottenendo assensi da ogni parte. E
quando pubblico e critica vanno sullo stesso binario
vuol dire che i giochi sono veramente fatti. Il quarto
figlio, "Eve" mise in mostra il fatto che il progetto
stesse perdendo qualche colpo puntando troppo
sull'easy listening e non riuscendo a trovare la
compattezza dei lavori precedenti. Un album certamente
meno cerebrale ma ancora un grande successo. La
schiera degli ascoltatori era definitivamente
conquistata e vendere "The Tum of a Friendly Card" è
stato quasi un gioco commerciale in una confezione
tecnica di lusso. Un compromesso veramente storico
anche perchè in grado di unire nell'approvazione gli
esigenti appassionati della musica cosiddetta colta e
i consumatori dozzinali di canzonette.
Il progetto aveva ottenuto finalmente quanto
desiderava al momento della partenza. E adesso dov'è
il vecchio sentiero? "Ammonia Avenue" esce dal
seminato, evidenziando anche un passo indietro nella
qualità tecnica delle esecuzioni, che ci porta ad
osservare il disco da due punti di vista differenti,
quello della abilità di aggiungere una grande massa di
ascoltatori e quello delle caratteristiche
essenzialmente tecniche. Nella prima ottica il lavoro
non fa una piega con i suoi ritornelli che spesso
danno l'impressione di essere già stati sentiti
favorendo un impatto facile e immediato che non
richiede alcun sforzo e nessuna attenzione particolare
nell' ascolto. Vinile da mettere sul piatto quando si
parlotta fra amici, oppure quando si riordina la
propria camera da letto, che se non mancano i lenti
per ballare. Dal lato tecnico, invece, il piatto
piange e le macchine sembrano non voler dare più
aiuto. In "Ammonia Avenue" Parsons scopre il
Fairlight, il sintetizzatore più interessante
attualmente presente sul mercato, capace di
riprodurre, analizzare e modificare qualsiasi tipo di
suono, ma non riesce a sfruttarlo a dovere. Tastiere
scontate e quindi fuori gioco, ed esclusa la solita
(per Parsons) orchestra di Andrew Powell, soltanto le
percussioni arrivano a superare la sufficienza.
Decisamente da bocciare la chitarra, troppo legata al
mito elettrico degli anni sessanta, senza alcun senso
in un prodotto che punta all'innovazione. Ma vediamo
il disco nei dettagli.
Le canzoni
"Prime Time" apre l'incisione in sordina con basso e
batteria ad imbastire un tappeto musicale eterogeneo
sul quale arriva la prima "schitarrata" stile di
quindici anni fa. Suoni puliti ma privi di invenzione,
sebbene gli impasti vocali sono ottimi anche grazie
alle doti di Eric Woolfson, vero marchio fabbrica dei
dischi di Parsons. "Let me go home" ci porta nel paese
dell"' Electrometal", con il suo stile pesante
all'americana: dove è andato a finire il vecchio
feeling britannico? Le cose migliorano con "One Good
Reason" e le sonorità si fanno più profonde, con dense
percussioni ed arpeggi di chitarra e piano chiari e
profondi. Ancora poche tastiere ed orchestra in
secondo piano, anche se nel successivo, "Since the
last goodbye", si assiste ad una vera e propria
esplosione sinfonico-barocca in uno struggente
lentaccio che porta la memoria ad "Atlantis" di
Donovan. Ricorda invece i Beatles con il suo attacco
alla John Lennon "Don't answer me", il brano che
chiude la prima facciata. La batteria è ancora una
volta il suono più curato e Woolfson dimostra tutta la
propria bravura ma il sax di Mel Collins è veramente
datato. Peccato, era cominciata bene.
Ad aprire il secondo lato è
"Dancing on a highwire" e stavolta i cori fanno venire
in mente i C.S.N.&Y. in versione anni '80 con
chitarra acustica in abbondanza su cadenzate basi
elettroniche. Ed il richiamo al già sentito cresce
ancora di più con "You don't believe" che si apre come
un pezzo di Gilmour e continua come uno dei Pink
Floyd. Carino, veramente carino, ma quante volte ce lo
hanno già propinato? Con "Pipeline" Parsons ci regala
un'accattivante strumentale in crescendo che forse
presto vedremo come sigla di un settimanale
d'attualità del telegiornale. Buono l'inizio a base di
sequencer ed orchestra, ma il finale con il sax alla
Papetti rovina veramente tutto, un po' come ad
avvertire che il disco si sta per concludere con il
classico lento malinconico e nostalgico secondo la più
tipica delle tradizioni.
A questo punto però, non si può
fare a meno di rimettere il braccio all'inizio dei
solchi e ricominciare l'ascolto, o perché abbiamo
fatto un viaggio negli anni passati o perché stiamo
mettendo a posto la camera da letto o, più
semplicemente, perché "Ammonia Avenue" ci ha catturato
e fatto compagnia per quaranta minuti. Il lavoro, come
detto, sembra essere fuori dalla linea del progetto
tracciata inizialmente da Parsons, ma se il suo
obiettivo fosse proprio questo? E' una questione che,
come la copertina del disco, si può prendere e
guardare da tutte le parti. L'ottava fase ci dirà chi
ha ragione e farà capire dove vuole arrivare il mago
del suono nel suo viaggio dall'altra parte del vetro.
I simbolismi
L'arte di nascondere concetti
dietro a maschere fuorvianti non è mai stata propria
dei signori delle macchine, i tecnici dalla mente
matematica, gli uomini per i quali due più due fa
sempre e soltanto quattro. Alan Parsons, soprattutto
quello prima maniera rappresenta un'eccezione alla
regola in quanto in ogni suo lavoro ha mostrato un
immenso piacere nell'usare simbolismi, attribuendo
significati arcani e suggestivi ad immagini fatte di
oggetti comuni e apparentemente senza un senso
preciso. Saltando da Poe ad Asimov, dall' antico
Egitto al Vecchio Testamento fino ad arrivare ai
laboratori chimici di "Ammonia Avenue" non ha mai
reputato opportuno servire contenuti su piatti dorati,
cercando di condurre l'ascoltatore a forzare la porta
della propria fantasia ispirandosi alle copertine dei
dischi.
Con "Tales of Mystery and Imagination" il tecnico
inglese spinto dal compagno Woolfson ha esplorato il
mondo di Poe offrendogli un appassionato tributo e
riportandolo nel ventesimo secolo affermando che il
mistero è nell'uomo e che non è facile da comprendere
perchè nascosto molto bene.... dal nastro magnetico.
Un modo come un altro per dire che il mago della sala
d'incisione stava cercando la sua personalità al di
fuori del mondo che fino a quel momento lo aveva visto
protagonista.
"Il declino dell'uomo è cominciato con la scoperta
della ruota... un avvertimento che il suo breve
dominio sulla terra è destinato a terminare perché ha
cercato di creare un robot a sua immagine e
somiglianza", sono le parole che presentano "I Robot",
e le immagini vengono subito a chiarirci le idee.
Sulla copertina vi sono delle figure umane prigioniere
del parigino Centre Pompidou, un pò a simboleggiare
come le creazioni degli umani possono un giorno
rivoltarsi contro di loro. La nostra specie non ha
quindi futuro, non resta che consolarsi con il
passato, ed ecco che arriva "Pyramid", inno alle
costruzioni degli egizi, portafortuna e allo stesso
tempo unica delle meraviglie del passato rimaste a
ricordarci che molti prima di noi hanno camminato dove
camminiamo.
E perche non tornare più indietro, alla creazione e
trovare una Eva maliziosa e portatrice di inganno. La
Bibbia sacro testo di religione da molti definito come
il "miglior libro fantastico mai scritto", fornisce
spunti meravigliosi e allora la prima donna può
veramente divantare primadonna e Parsons può cantare
l'amore impossìbile per la bellezza perfetta che forse
non è cosa di questo mondo. Con "Eve" si chiude i
simbolismo sentito di Parsons, e si passa ad un
mascherare manieristico, ma ormai consacrato nel
successo. Troviamo il fato e di nuovo la religione in
"The Tum of a Friendly Card" e la senzazione è che
tutto sia stato buttato giù in fretta con la scoperta
dell'acqua calda, "La fortuna gira e bisogna saperla
cogliere senza incertezze!", "Eye in the Sky" con il
mito dell'essere superiore chiude il razzolare nel
passato di Parsons e ci guida ad "Ammonia Avenue"
chimicamente moderno nei suoi concetti. Può darsi che
andare a scandagliare i contenuti simbolici di un
disco sia un pò come dichiarare guerra ai mulini a
vento, perché detta una cosa ci si può tranquillamente
esercitare nell'arte sofista di affermare la verità
del suo contrario. In fondo una copertina è concepita
per vendere un disco e per questo scopo deve essere
gradevole e attirare l'attenzione. Il nostro tecnico
del suono potrebbe essere un mistificatore e non aver
mai pensato nulla di quanto ha fatto, ma, dato che il
fine giustitica i mezzi, questo problema passa in
secondo piano. Sicuramente Alan Parsons è un uomo
dalle molte idee chiare, e non è sicuramente una cosa
da poco.
Marco Zatterin
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